Quattro libri di Natale per tornare a casa

Quattro libri da leggere a Natale per Tornare a Casa

C’era una volta…..

 

Le fiabe iniziano tutte così. Poi c’è qualcuno che parte, che viaggia, che si sconfigge, che sconfigge un nemico. E poi ci sono mostri che portano il nome delle proprie paure, angoli bui, tranelli. Alleati, certo. Camuffati da giullari o coperti da mantelli che scaldano. Infine c’è un ritorno. C’è sempre un ritorno.
A casa.
Dentro di sé.
Un sé diverso, più grande, più forte, più coraggioso. Più duraturo.
Il finale certo che ristabilisce l’ordine, iniziale o no non ha importanza, ma ristabilisce l’ordine. Quindi il lieto fine. Non ci ho mai creduto molto in realtà, al lieto fine intendo. Ho sempre pensato che ci fosse un prezzo da pagare per essere poi, alla fine del racconto, appagati. Felici no, “ma in fondo chi è felice?” cantava il mio adorato Roberto Vecchioni. Però li amo, tanto, perché si ama tanto ciò che si vorrebbe per sé e per le storie che si stanno vivendo.
Oh quanto amo oggi i finali certi. Quanto amo adesso i lieto fine.

Qualche anno fa ho vissuto una storia che, per certi versi, ha i tratti della favola.

 

Sì, ho avuto anche io il mio felice ritorno a casa. Quando partii lo feci perché non stavo bene nei vestiti che indossavo. Erano stretti, corti, e volevo trovarne altri che mi stessero comodi, a pennello, non si dice così?
Avevo bene in mente, in quel momento, confidando nell’esattezza del mio pensiero, cosa stavo cercando, quali indumenti volevo indossare come più consoni alla mia persona.
Ma poi la strada si è confusa, o forse solo, si sono accesi i lampioni su quella che rimaneva sempre buia.

 

Porto con me tre libri.  Lo faccio sempre quando viaggio, mi piace tenermi compagnia con le storie.

In attesa del treno, inizio a leggere Oceano Mare di A. Baricco  (io amo questo autore, lo avrai intuito se mi leggi da un po’).

 

Oceano Mare di A. Baricco

“Oceano Mare” di A. Baricco

 

Come potevo indovinare dove mi avrebbe condotta? Infatti no, non potevo, a quei tempi poi.
Oh sapeste dove andavano a posarsi le parole, quei piccoli segni grafici che scorrevano sotto i miei occhi. A volte entravano come pugnali, a volte erano sospiri, i miei perché non trovavo più il respiro. A volte schiaffi di qualcuno che mi metteva davanti cose che ancora non sapevo di poter vedere. Ma le parole! Quanto le amavo io quelle parole lì, dette così, scritte e giunte a me per definire contorni che cercavo.

“Uno si costruisce grandi storie, questo è il fatto, e può andare avanti anni a crederci, non importa quanto pazze sono o inverosimili, se le porta addosso, e basta. Si è anche felici, di cose del genere. Felici. E potrebbe non finire mai. Poi, un giorno, succede che si rompe qualcosa, nel cuore, quel gran marchingegno fantastico, tac, nessuna ragione, si rompe d’improvviso e tu rimani lì, senza capire come mai tutta quella favolosa storia non ce l’hai più addosso, ma davanti, come se fosse la follia di un altro, e quell’altro sei tu. Tac. A volte basta un niente. Anche solo una domanda che affiora. Basta quello.”

Al termine della lettura il mio cuore aveva fatto TAC.
Tac mi accorgo che la mia finta bellissima storia è davanti.
Tac il mio amore per le parole, spalanca la porta ed io sono proprio lì e me la prendo in faccia.
Tac non c’è alcun modo di tornare indietro. Sono molto lontana da casa.

Faccio sosta. Vorrei riposare: ho preso una bella botta in faccia, il naso è dolente, un monito per non dimenticare che c’è qualcosa che chiede di essere guardato. Volgere lo sguardo altrove, adesso, sarebbe da stolti.
Questo spazio in cui mi fermo è silenzioso.
Ho preso tempo dalla vita, dalle persone.
Aspetto.
Il mio aiutante magico.

Apro a caso il secondo libro che ho portato con me e vedo la foto di un post-it che l’autrice aveva appiccicato sul muro di casa “Quello che ti piace fare è ciò che sai fare meglio”, che poi è anche il titolo del libro. Lei è F. Pucci.

 

Quello che ti piace fare è ciò che sai fare meglio di F. Pucci

“Quello che ti piace fare è ciò che sai fare meglio” di F. Pucci

 

“Il Piacere è la misura della mia verità (…) la visione deve essere lo sprone per iniziare il viaggio” leggo.

Ma io sono già in viaggio, senza alcuna visione, sento solo di dover andare.

“Con il tempo possiamo modificare le circostanze se ci lasciamo guidare nelle nostre scelte dal piacere (…) La visione sarà la nostra mappa, il piacere la nostra bussola (…) Onora quello che ti piace fare. Onorati.”

Rifletto. Inavvertitamente, sfioro con il dito il setto nasale, ormai gonfio.

“Cercare il piacere, volergli costruire intorno il nostro quotidiano e le nostre relazioni non è la pretesa di persone viziate che mirano all’impossibile, è piuttosto l’unica vera assunzione di responsabilità nei confronti della vita che ci è stato dato di vivere. (…) Dobbiamo darci spazio per conoscerci, per capire chi siamo davvero e per imparare a sostenerci, ma dobbiamo ripeterci che lo vogliamo. Il primo passo da compiere è dichiarare a noi stessi la nostra volontà”.

Sì, ora è chiaro perché quella porta in faccia.
Ora è chiaro perché il mio cuore ha fatto TAC.
La mia storia davanti, ed io fuori da una persona che non sono più io.

“Per essere fedeli a sé stessi ci vuole coraggio, ci vuole tanto cuore per aspettare senza fuggire, per stare senza fare, per ascoltare senza dire. Questo è ciò di cui ha bisogno il tuo piacere in questo momento, di essere accolto in quanto tale, senza dimostrarti che ti cambierà la vita, senza prometterti la felicità”.

Allora sto.
Sto qui in questo luogo che non conosco, lontano da ieri, o da qualsiasi idea di cosa sarà.
Mi permetto di non avere fretta di ripartire, di darmi risposte o di cercarle fuori. Sono sola, finalmente sola. E mi ascolto, in un vociare e sussurrare che, mi sembra, mi appartenga. Silenzio intorno, silenzio tutto. Vuotare le stanze di fittizi ammennicoli tintinnanti come piccole campanelle per coprire il sussurro della mia persona. Ammutolita dalla mia cattiveria. Zittita dal fragore che le ho versato addosso per non riconoscerla.

Voglio sgranchirmi le gambe e passeggiare. Proseguo il viaggio, a piedi, per risentire il mio corpo. Mi accorgo che il dolore al naso è quasi sparito. Che il mio cuore batte più lentamente, senza affanno, calmo. Oh che pace qui ora. Niente più voci di nessuno.
Solo la mia.

Ho fatto un bel pezzo di strada, quando mi ricordo di avere nella borsa un ultimo libro da leggere. Lo estraggo e mi ritrovo seduta su un’auto che non è la mia, ma va bene. Al volante Simone Perotti, l’autore di “Adesso Basta”.

 

"Adesso Basta" di S. Perotti

“Adesso Basta” di S. Perotti

 

Apro il libro mentre lui guida. E sono dentro un’altra storia, che forse, poi, è la mia.

 

“Finora abbiamo
pensato che ci fosse
solo un modo
di guadagnare soldi
e lavorare, cioè
il nostro. Non è così”

Mi volto e lo guardo.
Sorride. In attesa.

Io proseguo la lettura.
“Questa per la libertà non è una scampagnata per buontemponi. È una guerra”.

E ancora, più avanti:
“Con la salute, con la pace, col benessere, è sopraggiunta anche l’alienazione, l’omologazione (e adesso anche l’insicurezza), e sembra che non vi sia alternativa a una vita spesa a lavorare, produrre, indebitarsi, consumare, ripetere gesti privi di senso, per troppo tempo, per una vita intera”

Dici a me? Gli domando.
Dico a chiunque abbia un cuore per ascoltare, ascoltarsi, risponde.

“Io ho sempre voluto scrivere, fin da quando ero bambino. Mi sono laureato in letteratura contemporanea, e pensavo che sarei rimasto all’università, ricercatore, assistente, professore. L’idea era quella.
Mi piaceva tanto studiare, mi piaceva discutere con chi studiava, avevo molte idee. Ma quel percorso professionale si rivelò subito tanto incerto quanto tortuoso. Per raggiungere l’indipendenza economica sarebbero stati necessari chissà quanti anni (…) Mi dissi «Scriverò lo stesso, ma per vivere devo fare altro»”

Rido. Rido istericamente.
“Sì, certo. Come no. Idea grandiosa Simone. E io sono la Fata Turchina. Lo dissi anche io a suo tempo. Guarda, sembra proprio il mio stesso dialogo interiore di quando, appena laureata, feci un master in Marketing Turistico e decisi che avrei comunque scritto mentre mi guadagnavo da vivere facendo altro”.

È in quell’istante che mi rendo conto di aver ricordato qualcosa che avevo messo via. Mi tocco il naso. Mi ricordo del luogo solitario in cui mi sono attesa.
E capisco.

 

“Vai avanti a leggere” mi dice senza scomporsi.

“Ad un certo punto, ho lasciato tutto. Guadagnavo molto bene, e soprattutto avrei potuto crescere e guadagnare ancora di più tra i quaranta e i cinquant’anni. Dopo diciannove anni di attività in cui mi ero impegnato a fondo per affermarmi, crescere, fare carriera, incrementare relazioni, potere, denaro, ho deciso che lasciavo quella vita. Non l’ho abbandonata per odio del mio lavoro, affatto, piuttosto perché volevo vivere anche altre vite, volevo cambiare. Volevo soprattutto essere più libero, poter perdere tempo, non dovere avere tutte quelle responsabilità, tutte impellenti, tutte insieme, senza sosta. Volevo uscire dall’ingorgo (…) Pensavo continuamente a come fare per smettere di lavorare. Volevo scrivere e navigare. Essi erano la mia vita, cose a cui il pensiero andava costantemente. Non hobby o passatempi. (…) Ho sempre potuto dedicare a questi pezzi di vita solo scampoli del mio tempo. Faticavo a infilare questa parte di me in un’agenda presa in ostaggio dal lavoro.”

Il suo scrivere e navigare sono il mio scrivere e fotografare.
Ora lo so. No, meglio. Lo ricordo.
Dove eravate?
Simone rallenta. Alzo gli occhi dal libro e lo guardo.
Con un cenno della testa mi indica di guardare avanti, oltre il parabrezza.

“Siamo arrivati” mi dice.

Vedo una casa bianca, affacciata su una scogliera.
Scendo dall’auto e il profumo del mare mi massaggia la pelle, mi accoglie.
Io amo il mare. Da sempre.
Intravedo la figura di una donna che mi sembra di conoscere: si ferma sotto il portico di legno della casa. Appoggia la spalla sinistra ad un palo, sorride e solleva il braccio destro in segno di saluto.
Io mi avvicino ed ho la crescente sensazione di averla già vista da qualche parte, sì ma dove?
Finché sono lì, a pochi metri da lei che, sempre sorridendo, mi guarda e mi dice:
“Bentornata a casa, Ragazza. Ti stavo aspettando. Quanto ti aspettavo mia cara.”
Salgo i gradini per avvicinarmi a lei: ho il desiderio di abbracciarla.

“Grazie, Priscilla. Mi sei mancata.” le dico.

Noto un tavolo che guarda verso il mare, fogli e libri appoggiati ovunque. Un PC acceso con parole fitte sullo schermo, una macchina fotografica appesa alla sedia.

“Entriamo, vuoi?”

 

"C'è sempre una sorella preferita" di A. Ferro

“C’è sempre una sorella preferita” di A. Ferro

 

Ora siamo a casa. Nella nostra vita che contiene tutto ciò che abbiamo ritrovato in questo viaggio. In questo libro che abbiamo scritto per raccontare una storia che è la storia di tutte le donne. Altre donne che, come noi, sono tornate a casa.

 

 

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1 Comment
  • Giovanna
    Pubblicato alle 11:51h, 10 Luglio Rispondi

    Mi piace: brava ci sei riuscita

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