
17 Giu L’Editor come uno specchio
“Trovate un luogo tutto per voi” scriveva S. King nel suo maestoso On Writing, “finché non ne scoverete uno, vi sarà difficile prendere sul serio la vostra decisione di lavorare sodo”.
Secondo lui avrebbe potuto essere un luogo qualunque, l’importante è che avesse almeno “una porta che si fosse disposti a chiudere” per dichiarare al mondo intero là fuori che ci si è assunti un impegno della massima importanza.
Il passo successivo, sempre secondo King, è quello di fissarsi un obiettivo quotidiano e, infine, cominciare a scrivere. Una parola alla volta.
Ed è ciò che ho fatto, quando ho scritto il mio romanzo.
Intendiamoci, io, poi, non ho tutte le soluzioni di come si scriva, o di come si corregga, un manoscritto che siano valide in assoluto. Non credo che ci sia un modo univoco e giusto per fare questo mestiere. Credo invece che ognuno debba trovare la sua via, così come ha fatto King, così come ho fatto io, così come ha fatto o farà chiunque si dedichi alle parole.
Mi auguro che scrivere questo articolo e condividere ciò che è stato vero per me – e mi ha aiutata a crescere in questa esperienza – possa essere utile, domani, o forse fra cinque minuti, quando deciderai di esporti al mondo con la tua opera.
La prima stesura del romanzo era il risultato di una scrittura tutta d’un fiato. Le immagini della storia che mi accingevo a raccontare erano fitte, insistenti, fastidiose, a volte, a causa della loro incessante richiesta di essere tradotte in parole, presto, in fretta, prima che tutto svanisca.
Guardavo negli occhi i miei ricordi ed ascoltavo i racconti della me di due anni prima. E scrivevo, a qualsiasi ora del giorno, più spesso la mattina, all’alba, quando il silenzio di casa mi permetteva di prestare maggiore attenzione a tutte quelle voci che sussurravano emozioni.
Le parole si appoggiavano ad una struttura che, invece, avevo scelto con lucidità: due capitoli, il primo e l’ultimo, temporalmente collegati nel presente, fungevano da cornice al quadro dei cinque capitoli centrali, scelti per raccontare singole storie – all’apparenza, perché, in realtà poi, si tratta di storie nelle storie – di donne coraggiose.
Avevo creato uno scheletro generale ed avevo deciso cosa avrei narrato in ogni singolo capitolo, intorno a quale parte di vita le parole si sarebbero avvolte.
Funzionava. A guardarlo da fuori, il romanzo funzionava.
Giunta alla parola fine, ho salvato e chiuso il file, senza riaprirlo per alcuni giorni.
Ho lasciato la storia delle mie sorelle, un miraggio ancora aggrappato all’idea delle parole come mestiere, dentro quelle pagine per permetterle di vivere da sola. Di calmarsi. Di stare ferma senza di me intorno.
Poi, sono tornata da lei, matita alla mano, pronta a cancellare pezzi superflui di grafie antiche, brevi traduzioni di ricordi e lacrime, telefonate e viaggi. Volevo essere, per prima io, l’editor di quella magia. Pensavo che solo io avrei potuto capire come e cosa correggere affinché rimanesse intatta la luce che brillava in quelle vicende.
“Non può essere altrimenti” pensavo.
Presuntuosa, direi ora.
Mentre muovevo la mina famelica tra le righe, mi accorgevo che, in parecchi punti, il racconto mancava di leggerezza. Troppi giri di parole per raccontare un episodio, frasi molto lunghe che scimmiottavano lo stile di Virginia Woolf ma che, in realtà, traducevano una certa immaturità letteraria.
Ho dovuto uscire dalla mia storia e divenire lettore sconosciuto, specchio critico di me stessa, per cominciare a vedere le correzioni da apportare al mio narrare: per amore di questo mestiere, ma soprattutto, per amore dei lettori che mi avrebbero scelta, ho dismesso i panni dell’autrice per divenire una sorta di viandante delle parole, che incontrava sul suo cammino cespugli di avverbi da potare o liane di parole aggrovigliate intorno ad un personaggio o, ancora, polverosi cliché che ricoprivano i dialoghi.
Certi giorni sudavo freddo: brandire quelle cesoie mi induceva a temere che poi la storia risultasse in qualche modo incompleta. Mozzata. Altri invece ero euforica, poiché sapevo di dedicarmi ad uno dei miei più grandi amori, le parole.
Ancora non bastava. Qualcosa non tornava, ma io, da sola non potevo vedere.
Allora, l’ho spedito ad Andrea, l’amico fidato, l’editor glaciale ed implacabile al quale mi rivolgo ogni volta che decido di mettere al mondo qualcosa di scritto.
“Ti mando la prima bozza. Che ne pensi?” scrissi.
Immagino che sia una domanda che molti scrittori, in erba e non, abbiano posto al proprio personale editor/primo lettore di fiducia/giudice implacabile di contenuti, lessico, grammatica e tutto il resto. Lo specchio attraverso il quale guardare il proprio lavoro per capire se è buono o da buttar via. Tutti ne abbiamo uno e questa è la domanda che gli si pone. Poi si aspetta.
Si aspetta che lui veda, ti veda, te e la tua storia, ne segua i contorni, le pieghe, i ritorni, i non ritorni. Si infastidisca di fronte ad un inaspettato dialogo infruttuoso, sorrida nel riconoscere un fruscio nel proprio cuore. Come un ricordo che non ricordava, e scriva, a margine, ottimo spunto. Segui questa linea, questo tono, questo ritmo.
Si aspetta che ti dica che qui è pesante, ci sono troppi possessivi, relative troppo lunghe, sinonimi consumati dall’uso.
Si aspetta che ti scriva, di nuovo, con la tua creatura di parole allegata alla mail, ferita? O più forte di prima, pronta ad andare incontro al cuore delle persone e sorprenderle tutte nelle loro vite?
Per come la vedo io, solo passando attraverso uno specchio di questo genere, con umiltà e voglia di imparare, ascoltando chi davvero legge e vive i nostri scritti, possiamo ambire a raggiungere quel livello di purezza e bellezza narrativa degna dei nostri lettori.
Amare le parole non significa soltanto seguire il flusso creativo che traduce un impeto interiore, ma, anche, vederle, tutte, nelle loro forme più complete. Cercarle, forgiarle, inventare nuove combinazioni autentiche che emergono dalla nostra conoscenza storica. Significa anche studiarle, in mille forme, declinarle in altri dialoghi e portarle dentro di sé, come la propria miracolosa cassetta degli attrezzi.
L’atto di scrivere è frutto di una scintilla interiore, ma il mestiere di scrivere è la somma di essa e della sua stessa cura.
“Sono stato tutta la mattina per aggiungere una virgola, e nel pomeriggio l’ho tolta” cita un aforisma di O. Wilde: esiste forse un modo migliore per trascorrere le proprie giornate?
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